Avete mai sentito parlare delle religioni dei cargo? Si tratta di uno strano culto che si è sviluppato principalmente in alcuni angoli remoti della Nuova Guinea e in altre società tribali della Melanesia e della Micronesia in concomitanza con l’arrivo delle prime navi esploratrici occidentali del XIX secolo.
Il culto del cargo ha avuto la sua maggiore diffusione in seguito alla seconda guerra mondiale, quando le tribù indigene dei luoghi interessati ebbero modo di osservare le navi giapponesi e statunitensi che trasportavano grandi quantità di merci. Alla fine della guerra cessò il rifornimento di merci e per attrarre nuovamente le navi e invocare nuove consegne, i credenti del culto del cargo istituirono rituali e pratiche religiose, come la riproduzione grossolana di piste di atterraggio, aeroplani e radio e l’imitazione del comportamento osservato presso il personale militare che aveva operato sul luogo.
Durante la seconda metà del Novecento il culto del cargo è diminuito fino a scomparire quasi del tutto. Sull’isola di Tanna, nella Repubblica di Vanuatu, sopravvive ancora il culto di Jon Frum (che era semplicemente uno dei capitani che conduceva i cargo inglesi). Sulla stessa isola è vivo il Movimento del Principe Filippo, che ha come oggetto di culto la figura di Filippo di Edimburgo, marito di Elisabetta II, regina del Regno Unito. (da Wikipedia)

Questa è la storia asettica del culto, ma comprenderne la genesi è molto più interessante, in particolare se osserviamo il contesto. Siamo nel 1800, le popolazioni indigene delle isole polinesiane avevano due caratteristiche che saranno fondamentali per farsi un’idea su come sia andata:
Con queste premesse, gli indigeni vedono arrivare questi uomini che sopravvivevano (e sembravano anche stare meglio) senza che nessuno di loro cacciasse, coltivasse i campi o svolgesse alcuna delle attività che, per loro, rappresentavano la base della sopravvivenza.
Non solo! Questi uomini per la maggior parte del tempo si esercitavano militarmente, un concetto che non aveva alcun senso per una popolazione alla quale, chiusa nel suo isolamento, mancava l’idea stessa della guerra. Le manovre, gli allenamenti, le marce apparivano come atti incomprensibili…
A dire il vero anche nel villaggio c’era sempre stato un elemento che faceva “gesti strani” che assolvevano, però, ad un compito importante: rimanere in contatto con gli dei che, dal canto loro, provvedevano a far sorgere il sole, crescere le piante, rendere fruttuosa la caccia. Era lo sciamano, il capo spirituale.
Malgrado questi stranieri non facessero apparentemente nulla per guadagnarselo, ciclicamente arrivavano dei cargo che scaricavano cibo ed altro. Per gli autoctoni la conclusione fu l’unica possibile, date le premesse: quegli “strani movimenti” sul piazzale d’armi erano, evidentemente, dei complessi riti (comunque fruttuosi) per ingraziarsi una divinità che, in cambio, risolveva le loro necessità.
Questo può sembrare un aneddoto divertente da raccontare durante una serata tra amici per farsi due risate. Ma provate per un attimo a calarvi nella condizione di quegli indigeni, tenendo presente quelle due premesse ed il fatto che le cose erano state immutabili per migliaia di anni prima dell’arrivo degli stranieri.
Davvero pensate che noi avremmo reagito diversamente? Questo ci porta al problema dell’affidabilità dell’evidenza:
quando osserviamo un fenomeno non possiamo fare a meno di interpretarlo attraverso le nostre convinzioni, le nostre conoscenze ed i nostri preconcetti.
Cerchiamo di essere estremamente chiari: non è una cosa che fanno gli altri o le persone che consideriamo stupide. Tutti abbiamo dei limiti nella conoscenza di alcuni argomenti ed è li che la nostra idea di evidenza tende a fare cilecca. Facciamo adesso un elenco di affermazioni che la quasi totalità delle persone classificherebbe come “evidenze”:
Sembrano tutte affermazioni indiscutibili; peccato che siano false.

Che il tempo scorra differentemente in base alla forza di gravità ed alla velocità lo aveva già capito Einstein agli inizi del ‘900 ma se pensate che sia pura astrazione, sappiate che il GPS funziona proprio su queste basi. Gli orologi in orbita sono settati in maniera diversa rispetto quelli a terra, tenendo conto che un giorno a 20.000 km di altezza dura 45 microsecondi in meno rispetto alla sua durata sulla superficie della terra. Senza questa correzione il GPS non funzionerebbe.
Solo pochi anni fa il successo di un esperimento di rivelazioni delle onde gravitazionali ha riempito le prime pagine dei giornali. Ma in cosa consisteva l’esperimento? Mentre l’onda gravitazionale attraversava il nostro pianeta noi misuravamo con una precisione assoluta una porzione di spazio ed abbiamo visto che questa si è contratta ed allargata.

Quando poi ci si sposta a livello quantistico le cose diventano ancora più interessanti. Molta tecnologia che oggi troviamo anche sui nostri smartphone si basa su un principio chiamato “effetto Tunnel” che, in pratica, contraddice apertamente l’idea che un elemento non possa attraversare una barriera.

A questo punto cosa possiamo considerare più evidente: quelle affermazioni dettate dal senso comune o il fatto che il GPS funziona, l’esperimento LIGO ha avuto successo e i transistor sfruttano l’effetto Tunnel per fare funzionare la nostra tecnologia?
Come gli esempi mostrano benissimo, inoltre, gli effetti di queste visioni così controintuitive sono, in realtà, alla base del funzionamento della tecnologia che maneggiamo quotidianamente. Questo le rende evidentemente vere. Ovviamente solamente se (o fino a quando) non interverrà una nuova interpretazione che meglio si accorda con i risultati degli esperimenti o faccia funzionare meglio la nostra tecnologia.
Finché le attuali spiegazioni reggono, per quanto lontane dalla nostra personale (e imperfetta) idea di evidenza, sono anche tremendamente intrecciate con la nostra realtà quotidiana, impattano quotidianamente con ciò che facciamo, pensiamo, diciamo. E compriamo. Questo non vuol dire che, oggi, se non conosci la relatività e la fisica quantistica sei tagliato fuori. Si tratta soltanto di accettare genericamente l’idea che il mondo è cambiato profondamente, che l’asticella dell’impossibile si è spostata e che alcuni meccanismi che prima sembravano assodati, oggi sono inefficaci. E soprattutto che non possiamo fidarci dell’evidenza.
E quindi non si può fare niente?
Bisogna riconoscere, inoltre, che l’evidenza, oltre ad essere inaffidabile, è anche un tantinello bastarda. Siccome si basa sul nostro personale modello di interpretazione della realtà è davvero complicata da “scalzare”. L’immagine inziale di questo post esprime la condizione base di questa difficoltà: i due interlocutori, malgrado stiano osservando lo stesso elemento, vedono due cose diverse e (cosa più grave) ognuno assume che l’altro stia vedendo quello che vede lui. Senza la consapevolezza che l’interpretazione del numero cambia a seconda del punto di vista e che, quindi, entrambi non hanno motivo di ritenere di aver torto (e nessuno dei due ha ragione in senso assoluto), il dialogo è impossibile.

Spiegando il percorso personale che mi ha portato all’elaborazione del progetto T-Campus parlo del ruolo che ha avuto, nella mia vita, la lettura del libro Flatlandia: il suo “lascito spirituale” è proprio la consapevolezza di questa difficoltà.
Ma, come per gli alcolisti, riconoscere il problema è il primo passo verso la guarigione. Parliamo quindi di soluzioni. Personalmente ho cercato di individuare un percorso logico che portasse al superamento del problema, partendo da un’analisi dei meccanismi che bloccano la nostra comprensione, dai bias cognitivi alle fallacie argomentative. Il passo successivo è provare a comprendere cosa ci serve, quali strumenti possiamo (e dobbiamo) utilizzare e perché è necessario farlo.
E parleremo della complessità. Sia per dimostrare come complesso e complicato non siano sinonimi e, principalmente, per comprendere come i sistemi complessi siano delle “bestie strane” che però rispondono a regole abbastanza semplici.
Ho chiamato questo percorso LezioneZERO.
Cosa ci blocca nella comprensione dei modelli digitali e cosa ci serve per imparare a governarli? La risposta è tutt’altro che tecnica: affrontiamo le idee che stanno dietro la tecnologia e comprenderemo quali siano, oggi, i “set d’informazioni” necessari per affrontare la nuova normalità.